GIORNO DELLA SUA RICORRENZA
15 dicembre
DONAZIONE DI
Paola Tellaroli
IL RICORDO
Salamanca, 15 dicembre 2023
Caro amico,
nonostante tu sia sempre stato nella betoniera dei miei pensieri, questa è la prima volta che provo
a scriverti. Credo che tutto questo silenzio sia dovuto al fatto che ogni volta che i miei pensieri saltano sul tuo ramo, una miriade di emozioni contrastanti li assalgono, spaventandomi. Ma ora qui, sola e distante da casa, penso sia giunto il momento di provare, piano piano, a buttare nero su bianco quel fiume di parole provenienti da correnti a temperature molto diverse tra di loro che mi attraversano ogni volta che ti penso. Cosa che mi accade molto spesso, come mi auguro sarà sempre, dato che ho una fottuta paura di non ricordare più il tuo profumo o il suono che faceva la tua risata. In questi quasi due anni il tuo ricordo mi ha raggiunta sia in momenti prevedibili che sorpresa in altri meno.
Così ho imparato che ti penserò ogni volta che:
– mi sopraggiungeranno alle narici contemporaneamente il fetore di un bagno chimico e l’odore di kebap, incontro magico capace di ricreare l’essenza dell’India;
– sentirò russare qualcuno e penserò che sta ucrainando, mannaggia a te;
– vedrò tu-sai-chi e penserò a che tette deve avere, dato che tu mi spifferasti che ne aveva veramente di molto strane, qualsiasi cosa ciò significhi;
– sentirò Luca Bizzarri, perché nella sua voce c’è una nota che mi ricorda la tua;
– scriverò un avverbio che finisce con -mente e ti sentirò cristonarmi dietro;
– vedrò a teatro attori meno bravi di te e allora sarò io a incazzarmi con te;
– mi imbatterò in qualcosa dedicato a ‘Podgora’ e di riflesso sentirò la tua voce acuta e brilla chiedersi ‘Podroga?’ e scoppierò a ridere come una cretina da sola;
– preparando una valigia mi chiederò se per caso sto programmando di cagarmi addosso due volte al giorno;
– starò aspettando la mia valigia al ritiro bagagli da troppo tempo e mi apparirai tu, abbracciato alla tua dopo una settimana di India, dove tutti ci siamo cagati addosso almeno due volte al giorno;
– leggerò da qualche parte ‘menu turistico’ e spererò che in realtà ci sia scritto ‘menu turisico’;
– non riuscirò a prendere sonno e penserò a quanto spesso, quanto troppo spesso, ti accadeva e mi galleggeranno in testa tutte le domande che non ti ho mai fatto;
– sentirò qualcuno parlare di depressione o di suicidio;
– rileggerò uno dei miei libri che abbiamo letto e riletto insieme fino alla nausea e riconoscerò una battuta che mi avevi suggerito tu;
– sentirò Volare dei Gipsy Kings;
– leggerò da qualche parte ‘Toulouse’ e la mia mente automaticamente ripeterà ‘nothing to loose in Toulouse’ e ti rivedrò collassato in macchina the day after;
– sentirò parlare con l’accento indiano e mi partirà il tic dell’I’m happy if you’re happy;
– mi imbatterò nelle bancarelle di libri usati e mi verrà in mente quel libro che cercavi sempre e che ti dovrei chiedere il titolo, che magari qui ce l’hanno; che berrò un chaichaichaichaichaiiiii;
– mi troverò tra le mani L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello o Il mondo di Sofia;
– vedrò delle piante grasse;
– qualcuno dirà ‘Sacramento!’;
– capiterò nella triste Milano o sarò in giro per Padova, soprattutto se passerò di fronte al MUSME;
– scriverò;
– mi laverò le mani in un lavandino incrostato;
– sentirò qualcuno chiedere “Do you know..” e mi verrà da terminare la domanda con un grande “sticazzi?”;
– mi imbatterò in un padellino perché mi verrà voglia di berci dentro;
– scroccherò una sigaretta perché ho smesso di fumare molti pacchetti fa;
– conoscerò una persona irresistibilmente divertente e d’istinto mi verrà da domandarmi se mi farà anche lei quello che, inconsapevolmente, mi hai fatto tu.
E chissà in quanti altri momenti sbucherà il tuo pensiero e chissà se sarà un colpo basso fin da subito o se invece la fitta del tuo ricordo sarà più infingarda e si nasconderà dietro a una grassa risata. Quel che è certo è che un infinito manto di tristezza, buio e placido come il mare nella notte, lo accompagnerà sempre, condito da una malinconia strana, striata da ricordi così vividi e ridicoli che talvolta è in grado di far deragliare il suo percorso originale.
La tua decisione certi giorni mi risulta così incomprensibile, altri così chiara e lineare, amico mio. Lineare perché erano anni che ci provavi e tu – da bravo ex sportivo – sapevi bene cosa fosse la determinazione; lineare in quanto era la prognosi di una malattia conclamata da tempo e mai curata a dovere da chi avrebbe dovuto farlo; lineare perché noi che dovevamo starti vicini non ci siamo riusciti. Ma dimmi almeno se hai deciso di scendere da ‘sto mondo perché hai visto da una crepa che la vita non aveva alcun senso. E perché non te ne sei fottuto. Stiamo ballando tutti un ballo insensato solamente per stare in equilibrio… Hai voluto sbarazzarti del tuo corpo a soli pochi giorni dalla primavera per noia, o disperazione o per non dover affrontare un’altra allegra primavera? O forse è stato il male fisico che questo mondo ti ha procurato e la totale assenza di prospettive che questo magnifico paese ti ha dato ogni volta che ti sei rialzato? Ma pensi di essere l’unico ad avere avuto paura vedendo davanti a te tutti i tuoi errori in fila? Io penso che non ci si abbandona così all’idea che la felicità sia dovuta e che pensavo ti fosse rimasta addosso un po’ più di India. Ma ecco che sopraggiungono i sensi di colpa, ben pasciuti, armati e folti. Perché non ti ho scritto quella mattina? Come avevo potuto arrabbiarmi con te e buttare via tutto quel tempo? Perché ci siamo visti così poco negli ultimi anni? Perché non ho fatto per te quello che tu hai fatto per me mentre io ero in ospedale? Perché non ti ho mai detto che quella vergogna che provavi io la capivo? Perché cazzo sei tornato dai tuoi, diocristo? Perché non hai voluto dirmi cosa ti era successo la sera della nostra festa di partenza? Da dove è iniziato questo effetto domino? O si tratta di autocombustione forse? Perché non hai provato ad aspettare un po’ più di quanto pensavi di poter sopportare? Quante cose avrei potuto fare diversamente. Quante cose vorrei averti detto diversamente. E quanta rabbia mi monta dentro quando mi rendo conto che non avevo e non avrei nemmeno ora i mezzi per maneggiarti. Mi incazzo perché da quando te ne sei andato il mondo sembra non essersene accorto ma anche e soprattutto perché non doveva andare così, perché la vita con te non è stata come avresti meritato. Perché eri in lista d’attesa da troppo tempo, mi arrabbio perché tu avevi chiesto aiuto e avuto pazienza, il tuo non è stato un gesto di pazzia nel vuoto della mente ma l’ennesima richiesta d’aiuto. Ed ecco che arrivano i ‘perché proprio tu’, l’amico più insospettabile che avevo, ché se non hai resistito nemmeno tu alla bufera, che ne sarà di noi altri? Quante altre volte dovrò rialzarmi da una violenza inaudita di questo tipo? E lo rifaresti? Ho paura di sentire la risposta, perché qui c’è chi si ostina a pensare che non potevamo fare niente, mentre io non riesco ad assolvermi.
Il massimo che riesco a concedermi è il pensiero che la tua malattia – come un parassita – invadendoti, ti ha modificato non soltanto nell’aspetto, ma anche nel comportamento, al punto da trasformarti in un’altra persona. La tua depressione ha fatto con te quello che i fitoplasmi fanno coi vegetali che infettano: questi infatti modificano l’espressione genetica della pianta che hanno preso di mira, trasformandone i fiori in foglie, così da fornire più spazio agli insetti che inizieranno poi a succhiarle la linfa. Non è così? Credo che lo scacco matto il parassita te l’abbia dato facendoti rinunciare a quello per cui avevi dato tutto, e che la depressione sia il prezzo che hai pagato per aver rinunciato anche alla speranza. E la tua versione parassitata ti ha trasformato in un bambino viziato, disilluso e intrattabile. Eri arrivato a dire che l’unica cosa che eri in grado ormai di fare era accompagnare tua madre a fare la spesa. Tu! Proprio tu, la persona con più talento che io abbia mai conosciuto!
Quando la notizia mi ha raggiunto, da quando il silenzio è esploso, inizialmente ho pensato ad uno scherzo di cattivo gusto, e non sono stata l’unica a crederlo. A rimanere a fissare il telefono per giorni, incantata, col mal di mare, certa che ci sarebbe stato un colpo di scena che invece non è mai arrivato e il dolore ha iniziato a dilaniare i pensieri. C’è e c’era la guerra in TV, e io ricordo di aver iniziato e finito una serie in ucraino senza sottotitoli pur di non dover sentire i miei pensieri che sbattevano continuamente come falene su domande senza risposta. Mi sono spesso chiesta se quella mattina ti fossi svegliato e già avevi deciso che quella sarebbe stata la tua ultima colazione. Mi continuo a chiedere se non hai avuto paura e qual è stata l’ultima cosa che hai scritto su quel diario. Ho provato a immaginare come puoi aver scelto di passare quella mattina, invidiandoti un poco perché tu hai potuto scegliere. Invece non ho mai voluto sapere né immaginare come hai deciso di andartene. Però ricordo bene che era lunedì. E che venerdì ognuno di noi ha posato una pianta davanti alla chiesa della Madonna Immaculata Pellegrina, chiedendoci se nella scelta di un posto con questo nome improbabile ci fosse il tuo zampino. C’era chi tra le lacrime ci ripeteva di bere molta acqua, improvvisamente preoccupato della nostra disidratazione e chi pur di distrarci ci ha parlato di una parola da lui inventata alla quale noi tutti abbiamo dato eccessivo interesse. La verità è che temo che il tuo nome sia diventato impronunciabile come la peggior parolaccia, il tuo compleanno un giorno di silenzio pneumatico per tutti noi e quel lunedì negli anni una ferita che ciclicamente si riaprirà.
Di cose nel frattempo ne sono cambiate tante e la tua uscita di scena ne ha sconvolte parecchie. Dal canto mio devo ringraziarti, dato che quel diario che avevi letto l’ho portato avanti e avevi ragione, sai? E’ piaciuto, tanto che mi ha fatto vincere un premio e mi ha regalato la giornata più emozionante della mia vita. Da quel palco mi sono augurata che tu fossi orgoglioso di me. Ma quanto mi sarebbe piaciuto che ci fossi tu col tuo di diario su qual palco.
E ora me ne sto qua a fissare il tuo numero senza sapere che farmene. E con l’appunto sul telefono che mi ricorderà ogni anno il tuo compleanno? Hai scavato nella mia anima un vuoto, mi hai lasciato non solo un trauma e un motivo in meno per alzarmi dal letto la mattina, ma anche una fottutissima paura di poter essere la causa di futuri drammi per via, che ne so, di una frase detta sovrappensiero. E oltre a tutto questo, c’è anche la paura che qualche spora mi si sia infiltrata dentro. Prima di partire per qualsiasi viaggio un po’ di ansia l’ho sempre avuta, ma ultimamente mi prende proprio come una sorta di lieve panico che mi fa riaffiorare le tue parole sull’incapacità di viaggiare, e allora il pensiero che questo diventi cronico si installa in me. Perciò ho dovuto iniziare a prendere a ceffoni il terrore e sono andata da sola all’estero, forzando così tutte le mie paranoie. Cercando di ignorare la mia atavica paura di dormire da sola e del buio, quella nuova di volare, quella di perdermi e di essere derubata o perché no violentata, quella di venire sorpresa da un terremoto sola in un posto sconosciuto, quella di trovare un pazzo serial killer nel prossimo Airbnb o di rompermi qualcosa – maldestra come sono. Ma anche la paura di incappare in un attentato terroristico o in una catastrofe naturale, o che Ema abbia bisogno di me proprio mentre io non ci sono, di perdere i documenti, di essere rapita, di avere una reazione allergica, di avere un altro ictus mentre sono sola o anche solamente quella di fare figuracce. Lo so, sono sulla buona strada per diventare paranoica come mia madre e perciò ho deciso di fare quello che né lei né te facevate da troppo tempo, per far sì che la paura non mi addomestichi, perché non abbia la meglio. E fin qui, tutto bene.
Sai, di tanti chilometri percorsi da quando te ne sei andato nemmeno uno l’ho rivolto verso di te perché la mia mente si rifiuta di accettare che ci sia successo veramente. Ma credo che semplicemente una mattina – quando riuscirò a stare sulle mie gambe con in testa il pensiero di venirti a trovare per non trovarti – uscirò di casa in bicicletta per prendere un treno prima e un tram poi. E magari ti porterò una carta da gioco come quelle che tu trovavi per strada un numero stupefacente di volte, mentre a me non è (ancora) mai capitato. Ma appena mi succederà te la porterò, promesso.
Mi manchi, amico mio.
Vorrei che tornassi.
O almeno che tu andassi in un posto che prevede orari per le visite.
Ma spero che dove sei ora stai meglio, almeno tu.
Paola