GIORNO DELLA SUA RICORRENZA
DONAZIONE DI
Anna
IL RICORDO
fatto fare da Stefano per contenere i 36 diari di Roberta, sua moglie e nostra carissima amica, che lei aveva voluto affidare all’Archivio dopo la sua morte. Stefano aveva impiegato tre anni per riuscire a separarsene: anche per questo avevamo voluto andare con lui. Per sostenerlo in quell’ulteriore distacco da Roberta, la compagna della sua vita. Roberta, Robbi, è morta il 7 settembre del 2019. Nella primavera del 2018 le avevano diagnosticato un tumore di quelli rari, subdoli, inguaribili. Robbi era una delle più giovani del nostro gruppo di amici, anche di quello più ristretto delle amiccche… cosi ci chiamavamo e firmavamo nei messaggi fra noi: un gruppetto di amiche storiche, strette da un’amicizia di lunghissima durata. Ci siamo conosciute nei primi anni ’70 a Bologna. Nessuna di noi è bolognese, venivamo da diverse regioni e, a Bologna, tra università, gruppi politici della sinistra, femminismo, piazze e osterie, case, avevamo trovato la nostra piccola patria comune. Insieme abbiamo partecipato alle lotte di quegli anni, prima di tutto quelle femministe: riunioni, letture, autocoscienza, manifestazioni su e giù per l’Italia e vita in comune nelle case sempre aperte erano il nostro pane quotidiano. A distanza di poco tempo l’una dall’altra, alcune di noi hanno avuto dei figli. In quegli anni io ero lontana, all’estero ma, periodicamente, tornavo in Italia per non perdere i contatti, perché i nostri figli si conoscessero. Nel 1994, dal momento del nostro ritorno a Bologna, la figlia di Robbi e la mia, che già si erano conosciute, sono diventate amiche per sempre: l’amicizia delle madri è transitata in loro come un’eredità potente, imprescindibile. Le nostre figlie vivono lontane ora, ma la distanza non conta nulla, così come era stato per noi. All’epoca, ci scrivevamo lunghe lettere che ancora conserviamo. Oggi loro hanno mezzi più rapidi, ma la sostanza è la stessa: quando si rivedono anche dopo mesi e mesi, niente è cambiato. Con Robbi ci siamo confrontate sull’educazione delle nostre figlie, affrontando difficoltà, dubbi, incertezze e felicità che il mestiere di madre elargisce. Nessuna di noi era preparata: chi mai pensava che saremmo diventate madri? Io lo escludevo addirittura, eppure… Con Robbi, Stefano e Giulia abbiamo trascorso, dal nostro ritorno in poi , tutte le vigilie di Natale. Preparavamo insieme, Robbi Stef ed io, il primo e il secondo. Mio figlio si occupava degli antipasti e, insieme a Stef, dei vini. Le due ragazze preparavano il dessert. Abbiamo continuato, quando è stato possibile, questa tradizione. Formavamo una piccola famiglia elettiva. Insieme alle amiccche, periodicamente, facevamo un viaggetto. Scappavamo via da mariti, fidanzati, figli, per 4, 5, o più giorni: Roma, Genova, da me in Sardegna, a Faenza da Rita, da Lucia nell’alto Lazio…
In tutti questi viaggi, era a Robbi che affidavamo la cassa comune. Era lei la più attenta e precisa nel fare i conti ed eravamo certe che, lei, non l’avrebbe persa (contrariamente ad alcune di noi!). Aveva, Robbi, i piedi per terra ed un senso della realtà più spiccato rispetto al nostro. Le capitava di “bacchettarci” per le nostre sbadataggini o di provvedervi con qualche trovata, come quando mi regalò un timer a forma d’ovetto ingiungendomi di usarlo, dato che avevo varie volte rischiato di mandare a fuoco la casa abbandonando una pentola sul fuoco. Era generosa. Sapendo della mia insofferenza per lo shopping e della mia inettitudine negli acquisti, ogni tanto arrivava con dei vestiti che – affermava con soddisfazione- sembravano fatti proprio per me. Aveva un grande senso della giustizia. Per questo le feci un piccolo ritratto nei panni di Logistilla, la maga buona dell’Orlando Furioso, il cui regno è ordinato secondo equità e giustizia. Credo ne sia stata contenta.
Per anni, entrate ormai nella penultima parte della vita, abbiamo sognato una coabitazione e l’abbiamo immaginata, organizzandola in pomeriggi di chiacchiere, proprio come, da bambina, facevo con la nostra isola deserta. Durante tutto il tempo della malattia abbiamo sostenuto la nostra amica come potevamo, sentendoci spesso inadeguate, impreparate sempre. Sappiamo che moriremo, è un’esperienza comune e inevitabile; eppure, quando una persona cara si ammala e non c’è più speranza, inaspettatamente un abisso si spalanca tra lei e gli altri. Robbi ne era consapevole ancor più di noi. Ci diceva, a volte, di non capirci. Era esigente, Roberta. Avremmo voluto capire, che ci dicesse che cosa voleva esattamente da ciascuna. Forse, però, neppure lei lo sapeva. Facevamo, certo in modo maldestro, ciò che potevamo per starle vicino, per aiutarla, confortarla. Avrebbe forse voluto che fossimo capaci di strapparla al suo destino, anche se non era in nostro potere. Nessuna di noi, come Orfeo, era – è – capace di incantare gli dei degli Inferi o del Cielo per cambiare la sorte di chi amiamo. Le nostre mani che avrebbero voluto trattenerla con noi, si sono rivelate deboli, impotenti. L’abbiamo lasciata andare, ha allentato anche lei la presa, si è rassegnata e se n’è andata quasi serena. La notte del 7 settembre, alle tre e mezzo, mi sono svegliata di colpo, catapultata a sedere nel letto come sbalzata da una potente molla, mentre un fischio mi attraversava il cranio. Ho saputo, in quel momento, che la mia amica moriva. In un suo libro che ho letto da poco, Gabriella Caramore riporta un detto popolare siciliano: i genitori scomparsi li teniamo sotto la lingua. Non credo a una vita dopo la morte, a incontri nell’aldilà o ad altre favole consolatorie. Robbi non c’è più e non ci sarà più. Però è, in qualche modo, dentro di me, attorno a me, nella mia pelle e non soltanto sotto la lingua. L’ho sognata spesso, in questi anni. Nei miei sogni è sempre vestita con cura, con le sue borse abbinate alle scarpe, i vestiti scelti attentamente, le linee nere di rimmel di cui non poteva fare a meno sugli occhi. Ci incontriamo e ci abbracciamo, festose. A volte le confesso di non sapere dove mi trovo, mi sono persa di nuovo in una città sconosciuta. Lei scuote la testa, Annette, Annette, mi rimprovera, ed è proprio lei, così com’era. Qualcuno potrebbe forse interpretare il sogno come la mia sensazione di inadeguatezza. L’ho pensato anche io, ma adesso penso invece di essermi perdonata: ho fatto quel che potevo, nei limiti della mia debole natura umana e ho accettato la sua morte che avevo voluto esorcizzare, negare, durante la malattia. L’ho accettata perché so – e ora lo so davvero- che anche io morirò e che è così e basta. So che, oltre che nei miei sogni, non ci incontreremo più da nessuna parte. Ma che è stato bello essere amiche qui, su questa terra, in questo piccolo angolo di mondo.