Descrizione
Armando Viselli
Bellezze, sto arrivando!
Uno scapolo romano alla conquista del Canada
Milano, Terre di mezzo, 2012
pp. 272 – euro 14,00
Portiere d’albergo a Roma, viene licenziato per problemi all’interno della struttura: “durante le due settimane che seguirono, girai Roma per lungo e per largo, misi applicazioni in fabbriche, uffici, alberghi, enti turistici ma come ripeto, trovare un impiego era come cercare un ago in un deserto di sabbia”. Tramite un conoscente riesce a emigrare in Canada, al seguito di una ditta che si occupa della manutenzione delle linee ferroviarie. Si imbarca nel maggio del 1951 da Napoli dopo un toccante addio con i familiari: “Lentamente la nave si staccò dal molo e con essa il mio cuore”. A quei tempi le spese di viaggio erano anticipate dalle stesse compagnie con le quali si stringeva un contratto e il lavoratore si trovava vincolato per almeno due anni, fino a quando il debito non fosse stato saldato. Arrivato a Port Arthur va alla scoperta del paese, inizia il suo lavoro come supervisore marcatempo, fatica ad abituarsi alle usanze e alla cucina del posto. La ditta lo trasferisce nel Nord Ontario lungo la linea ferroviaria in un luogo isolato dove il clima è molto rigido. Dopo le iniziali difficoltà di inserimento nel gruppo già formato di connazionali, riesce finalmente a fare amicizia: “s’erano dovuti prima rassicurare di con chi avevano a che fare e poi, soltanto allora, m’avevano fatto entrare in mezzo a loro, nella loro cerchia”. La vita scorre abbastanza tranquilla, con la sua squadra viene spesso spostato lungo la linea ferroviaria, e dovunque arriva riesce a instaurare amicizie femminili: “a ventiquattro anni nel fiore della mia gioventù, non pretendevo di poter competere con le maschie virtù e fascino di Valentino, ma nemmeno ero poi tanto da disprezzare o accantonare”. Proprio a causa di un incontro galante all’interno di un vagone – cosa assolutamente vietata – subisce una punizione ma, non disposto ad accettarla, si licenzia e torna a Port Arthur dove trova lavoro in una fabbrica. Anni di solitudine ma anche di facili conquiste. Sarà più volte costretto a cambiare città e mestieri: compra un ristorante, diventa “stracciarolo”, poi raccogliferro, gestisce un negozio di generi alimentari, ma gli affari non vanno bene e in poco tempo anche questa attività fallisce, senza che lui si perda d’animo: “ero libero come un uccello, nuove frontiere, nuovi orizzonti, nuove prospettive, non attendevano che di essere esplorate, altre belle donne mi attendevano per essere corteggiate e conquistate, e con esse logicamente sarebbero sorti nuovi grattacapi, nuovi guai”. Dall’Italia arriva il fratello maggiore Giuseppe e con lui, nel marzo 1957, decide di traferirsi a Windsor Ontario e iniziare una nuova vita.
Armando Viselli è nato a Ceprano (Frosinone) nel 1927. Vive tuttora in Canada con moglie, figli e nipoti.
Armando Viselli letto da Mario Perrotta al Premio Pieve 2008:
Ilaria –
«C’è gente, illustri professori che da dietro una cattedra si permettono di scrivere libri interi sulla vita e fatti dell’emigrante. Come prima reazione mi viene da ridere e compiango questi poveri sapientoni che tutto sanno meno che la verità, la cruda e amara realtà, e siccome nessuno si cura o ben pochi si prendono la briga o sono all’altezza di contestare quello che dicono, se la cavano con un sacco di paroloni e un mare di bugie, e quello che fa più male, questi imbecilli vengono premiati con non meritate onoreficenze ed elogi. La terra bisogna vangarla per sapere quanto è bassa e pesante, e soltanto, dico soltanto il povero contadino sa quanto c’è voluto per far crescere quel chicco di grano».
Così il bell’Armando, narratore di una storia migrante da Roma al Canada, si scaglia contro studiosi e antropologi che non esperiscono ciò di cui trattano. In questo testo è racchiuso un pout-pourri umano che ricorda la forza-lavoro italiota emigrata in Australia già dipinta da Rodolfo Sonego nella sceneggiatura del film “Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata” (1971), il quale ritenne necessario compiere un sopralluogo in prima persona nell’entroterra desertico australiano. La storia di Armando, all’emisfero opposto del globo, datata venti anni prima e collocata in un’atmosfera più ghiacciata, è praticamente la stessa. Uomini del sud, soli, un po’ squallidi e disillusi eppure speranzosi; alle feste di ballo in cerca di compagnia; accroccati in piccoli assembramenti di case nel nulla lungo le vie ferroviarie.
Il suo viaggio di lavoro inizia col racconto di un licenziamento: Armando è consierge presso un albergo capitolino (Nord Nuova Roma) e perde il posto a causa del comportamento civettuolo avuto con una cliente importante. Grazie ai contatti mantenuti con certi canadesi, anch’essi ospiti dell’albergo, gli viene proposto di prestare servizio nell’azienda di manutenzione dei trasporti nazionale, la R.F. Welch. Non è facile ricevere aggiornamenti in merito dati i pochi mezzi di comunicazione disponibili, e il caparbio protagonista si reca persino in Calabria in treno all’alba pur di parlare con i responsabili delegati del suo ingaggio. Inizia così la tratta transoceanica a bordo di una nave passeggeri e prima in stallo al Centro Emigrazione di Bagnoli a Napoli: qui suo fratello Carmine smorza l’iniziale entusiasmo con una raccomandazione realista e pone una prima pietra del dubbio: «Tu sai bene che qui non si parla di partenze individuali e sporadiche, bensì è un exodus in massa e per arrivare a questo accordo ci sono volute lunghe trattative da parte dei due governi. […] Questi se ne fregano altamente di noi poveri derelitti».
Gli italiani godevano di una reputazione pessima all’estero e l’emigrazione era permessa solo a persone provenienti da zone agricole, eppure Armando non rinnegherà mai il Canada, dove poi si installerà con tutta la famiglia. La premessa è chiara: «Questa è la documentazione dello sforzo, l’inizio, o meglio il primo grande contributo italiano allo sviluppo di questa nobile nazione, la descrizione dettagliata dei sacrifici, le sofferenze, la solitudine, la mancanza della donna, l’immenso desiderio di possederla e le sue ripercussioni, per assommare, questo è il diario di ventimila calabresi, molti dei quali s’erano impegnati pure la camicia che avevano addosso pur di poter partire».
Nel testo c’è tanta vita comune con i sottoposti/compagni emigrati. La diffidenza iniziale verso di lui, novellino occupante alta carica («ero italiano come loro ma non calabrese come loro»); e poi l’affetto, la fiducia cieca, i pranzi insieme, i giorni e le notti, le rappresaglie contro i cuochi che si avvicendano uno dopo l’altro non riuscendo mai a soddisfare i gusti degli operai. Tra la monotonia in mezzo ai laghi e i ghiacci a bordo dei convogli («una vita di zingari, oggi qua, domani là, non avevamo alcun controllo sui nostri movimenti», «a volte sembrava di impazzire. Tutto mi annoiava […], l’unica cosa che appagava il mio animo e suscitava un vivo eccitamento generale era l’arrivo della posta») prendono vita episodi divertenti, come il Capodanno passato per caso al galà dei Testimoni di Geova o l’incontro con un anziano medico veneto eremita nel bosco: sarà proprio lui a ricordare l’amarezza e il rimpianto di chi decide di sacrificare la propria vita personale per l’arrivismo lontano da casa («spalancò la porta e cominciò a gettare i soldi in aria gridando: “Tieni, maledetta terra, riprenditi i tuoi soldi. Ecco quello che mi ritrovo dopo quarantanni d’America”. […] Era avvilito e la solitudine lo consumava fisicamente»). Anche i suoi uomini «soffrivano immensamente di nostalgia e malinconia. Il loro era un canto lento, triste […]. I loro erano discorsi semplici […] Il loro primo amore era la Calabria […] e infine il soggetto più discusso a tutte ore e in qualsiasi luogo da tutti, senza distinzione di età era lu cunnu».
Lungo le tratte della Canadian National Railways poche donne riescono a farsi espugnare dal protagonista, che rispetto gli autoctoni ha un certo stile («tanto ai giovani quanto alle ragazze, mancavano quel pizzico di finezza e di acchittaggio, indispensabili requisiti di eleganza sfoggiata da tutta la gioventù italiana», «mi scambiavano subito per un nordico», «la mia folta chioma bionda, una delle più importanti maschie bellezze di cui ero fiero e geloso»). Flirt con giovani cameriere, ubriacone, padrone di casa arcigne conducono all’episodio conclusivo: la scoperta di una tresca e conseguenti mazzate.
Le parentesi amorose segnalate nel titolo occupano una buona parte del testo, ma non tutta. C’è soprattutto la descrizione delle mansioni impiegatizie e della manutenzione ferroviaria (rialzare e rinforzare la linea, sollevata dal ghiaccio sul terreno sabbioso), oltre ai cenni geografici sui luoghi percorsi: Porth Arthur, Tashota, Hornepayne, Nakina, Longlac, Nipigon, ecc. Notevoli le osservazioni sul comportamento dei pochi locali incontrati e lo scontro avuto con le conglomerazioni dei francesi québechesi, razzisti verso i “mangia-spaghetti”, i “D.P.” (displaced person – persone senza patria): «per me quella parola era così odiosa, così umiliante […]. Noi siamo emigranti e non D.P.».
L’autobiografia è avvincente, scritta in un italiano colorato di note romanacce. Armando ci sa fare, è un personaggio sicuro di sé al punto che decide di dimettersi per partito preso, abbandonando così ogni opportunità di crescita in seno all’azienda e lavorando prima in fabbrica («una prigione […] non avrei mai potuto accettare di vivere il resto della mia vita come un uomo meccanico»), poi spostandosi a Montréal, luogo cittadino più consono alla sua voglia di vita. D’altra parte, «dovevo forse preoccuparmi di crearmi una posizione, di trovarmi un buon impiego, di solidificare la mia posizione finanziaria? No no no. A venticinque anni quelli erano problemi secondari, […] nel mio calendario la donna era numero uno».
(http://autobiografista.tumblr.com/post/156536940584/il-rampante-marcatempo-sullontario)