Descrizione
Raffaele Favero
Rafiullah
Via da Milano, fra i mujaheddin
prefazione di Giovanna Botteri
con interventi di Patrizia Favero
Milano, Terre di mezzo, 2006
pp. 150 con ill.
Nell’ottobre del 1983, mentre i sovietici invadono l’Afghanistan, i mujaheddin seppelliscono Raffaele Favero con gli onori di un martire di guerra. Rafiullah, come Raffaele si firma nelle sue lettere giovanili, era lì per girare un documentario televisivo. “Rafiullah filma, -come dice Giovanna Botteri nella prefazione- col kalashnikov al braccio. Non riesce a essere testimone, ha bisogno di essere protagonista. Il giornalista che accetta di dare una parte di sé in cambio delle storie che raccoglie. Come faceva Tiziano Terzani”. Era partito da Milano come altri, negli anni ’70, per raggiungere l’India via terra. Ma si è fermato in Afghanistan. Convertito all’Islam, progetta di costituire una comune, si ostina a piantare nel deserto decine di eucaliptus. Per vivere fa il contrabbandiere, l’attore, l’ingegnere edile, chiede soldi a casa. Impara a parlare il pashtu, diventa fratello e amico dei mujaheddin. Finché incontra Jill, innamorata quanto lui del Medio Oriente. E la possibilità di condividere le sue inquietudini con una compagna apre la strada a una vita adulta senza rinunciare ad essere speciali. In questo volume si ripercorre, attraverso le lettere che Raffaele manda alla famiglia, la storia di un uomo libero, dai giorni freak all’esperienza di padre. Fino alla scelta di tornare in Afghanistan, quando i sovietici invadono il Paese, per raccontare dall’interno la resistenza.
Attratto dall’islamismo, Favero è diventato amico dei mujahedin afghani dimostrando come la questione dell’incontro tra le religioni sia possibile senza ricorrere alla violenza.
[dalla motivazione della giuria nazionale]
Marco –
Ci si commuove, a leggere questo testo.
Si inizia a leggere e si viene immediatamente trascinati in un vortice emotivo: si vorrebbe seguire il consiglio di Tutino, che diceva che un epistolario andrebbe letto con i suoi tempi e non come un libro, perché fra una lettera e l’altra sono passati molto spesso dei mesi… ma si capisce bene dall’altro lato la foga di cui parla Giovanna Botteri nella prefazione, quella che ti fa leggere una pagina dopo l’altra, senza tregua, quasi a voler arrivare alla fine del libro senza rendersi conto delle pagine che volano e degli anni che passano, nel calendario delle lettere che si susseguono.
Raffaele si trasforma sotto i nostri occhi, si materializza Rafiullah, che poi lascia di nuovo il posto a Raffaele, poi a Raf, poi di nuovo torna Rafiullah: il mondo intorno a lui sembra molto meno mutevole del suo animo, in continuo fermento. Nelle prime lettere dall’Afghanistan e dal Pakistan ci si aspetta che possa accadergli qualcosa da un momento all’altro, così come durante le sue peripezie in mezzo a deserti, confini geografici e politici incerti, incidenti, addirittura il carcere… si gioisce con lui e di lui quando finalmente trova la pace nella costruzione di una famiglia che dall’esterno appare davvero perfetta, con una moglie che lo ama e lo stima profondamente, con 3 figli bellissimi che crescono insieme a lui nella lontana Australia. È proprio quando il libro si assottiglia e le pagine finali si avvicinano che riappare, all’improvviso, il Rafiullah di un tempo, che credevamo e pensavamo fosse rimasto per sempre in Afghanistan. E invece era sempre stato dento al cuore di Raffaele, che era Raffaele e Rafiullah ad un tempo.
Ed è proprio quando crederesti che Raffaele ha finalmente trovato la felicità, quando penseresti che la sua vita si è compiuta perfettamente nella sua famiglia, in Australia, è proprio quando tutti i pericoli e le ansie familiari che hai condiviso in questo viaggio sembrano lontane, ecco… proprio quando penseresti che nulla più, di brutto, possa accadere a Raffaele e alla sua bellissima famiglia, ecco che la corrispondenza si interrompe.
Leggi le ultime due lettere del libro e ti chiedi come sia potuto accadere che quel ragazzo così buono, con tre bambini piccoli ancora da crescere, non abbia più potuto fare ritorno a casa: è sua, una delle lettere più belle di questo epistolario, quella scritta da Peshawar pochi giorni prima di morire, la sua ultima. L’altra, bellissima e commovente, è quella della moglie ormai vedova, che scrive ai genitori di Raffaele a Milano e alla sorella, quasi a fare forza, lei, a loro, distrutti dalla perdita del figlio e del fratello. Lei, sola e con tre figli da crescere, che dice che ce la farà: “sarà dura, ma non impossibile” scrive, come se dentro di sé, nel profondo, avesse sempre saputo che il destino di Raffaele sarebbe stato quello, come se Raffaele non fosse destinato che a quello.
È, come sempre quando si legge uno dei diari conservati nell’Archivio di Pieve, una storia privata che diventa Storia pubblica, collettiva, che attraversa anni e conflitti complessi, vissuti in prima persona da testimoni che con la loro penna ci hanno raccontato molto più che la loro “semplice” vita.
È, come sempre quando si legge uno dei diari conservati nell’Archivio di Pieve, una di quelle storie che ti entrano dentro, diventando tua. Un’intima compagna di vita che come una sensazione invisibile si porta per sempre con sé, come un’emozione che si indossa, che ci rende persone diverse, arricchite, certamente migliori.
stampa –
da Corriere della Sera 12/05/2018 – Stefano Lorenzetto
Accadde 35 anni fa. Il 20 ottobre 1983, un giovedì, Costantino Favero stava tornando dalla messa mattutina. Il signor Curti, suo vicino, capì subito che l’anziano non aveva ancora letto il Corriere della Sera. Allora lo prese sotto braccio e si offrì di accompagnarlo a casa. Lì, aperta la pagina 10, il quasi ottuagenario seppe. In fondo alla sesta colonna, c’era una notizia di appena 19 righe, senza titolo, preceduta da un pallino nero: «Un giornalista australiano di origine italiana, Raffaele Favero, di 38 anni, è stato ucciso il 10 ottobre scorso nel corso di un bombardamento sovietico in Afghanistan».
Il destino aveva deciso che il batterista dei Profeti morisse per il Profeta. Era il 1966 quando Raffaele Favero entrò nel complesso milanese, giusto in tempo per registrare «Bambina sola», il primo 45 giri di successo, che aveva sul retro la canzone «Le ombre della sera», scritta da Lucio Battisti. Poi sarebbero venuti il Festivalbar, il Cantagiro, il Festival di Sanremo e altri brani celebri: «Gli occhi verdi dell’amore», «La mia vita con te», «Lady Barbara». Ma senza di lui. Perché Favero cambiò il suo nome in Rafiullah, si convertì all’Islam e andò in Afghanistan a combattere con i mujaheddin contro gli invasori sovietici.
«Non lo definisca foreign fighter, Raffaele non lo era», si raccomanda l’unica sorella, Patrizia, nata 22 mesi dopo di lui. Jill Hutchings, l’australiana che Rafiullah aveva sposato nel 1974, rimproverava il marito: «Non è la tua guerra santa». Ma lui le rispondeva: «Questa è la guerra santa di tutti». La lasciò per sempre a Maryborough, 170 chilometri da Melbourne, con tre figli da crescere, Adam, 7 anni, Jana, 5, e Rhea, 3. A «Patrizina sorellina buona», come la chiamava nelle lettere, nella casa di Milano non resta neppure il disco «Bambina sola». «Lo chiesi anni fa a Brioschi, il Renato dei Profeti. Ma non me lo inviò».
Leggi l’intervista a Patrizia Favero: https://www.corriere.it/cronache/18_maggio_12/mio-fratello-ucciso-afghanistan-era-mujaheddin-contro-russi-farraele-favero-988eb0fe-554e-11e8-bf97-5f8d4271ee5b.shtml